Badante convivente non libera l’abitazione: cosa può fare il datore di lavoro?
Riceviamo di frequente segnalazioni da parte dei nostri utenti che lamentano il fatto che la badante convivente non libera l'abitazione al termine del rapporto di lavoro. Abbiamo quindi chiesto un parere ad un avvocato penalista circa le possibilità di attivare una procedura urgente, mediante l'intervento delle forze dell'ordine.
Pubblichiamo di seguito il parere.
La risposta è molto interessante e può essere d'aiuto nella normalità dei casi:
"In ambito di lavoro domestico non è infrequente l’insorgere di controversie che riguardano la fase di scioglimento del contratto.
Può tra l’altro accadere che il lavoratore (badante, portiere, custode), trasferitosi in costanza di rapporto presso la stessa abitazione del datore di lavoro o presso un alloggio indipendente messogli a disposizione da quest’ultimo, rifiuti, una volta risolto il contratto e decorso il relativo termine di preavviso, di allontanarsi dall’immobile.
Ebbene, in questi casi molti si chiedono se possa configurarsi un reato e se ci si possa quindi rivolgere all’autorità giudiziaria penale.
Ad avviso di chi scrive è necessario operare una netta distinzione tra i due casi appena prospettati (coabitazione o messa a disposizione di alloggio indipendente).
Si prenda anzitutto in esame l’ipotesi della badante che convive nella medesima abitazione in cui dimora il datore di lavoro cui viene prestata assistenza.
Ebbene, in tale ipotesi il rifiuto di allontanarsi dall’abitazione - una volta risolto il contratto nel rispetto del termine di preavviso ed a fronte di una esplicita richiesta dell’ormai ex datore di lavoro - sembra integrare - quantomeno sul piano astratto e fatte salve tutte le peculiarità del singolo caso concreto - il reato di violazione di domicilio sanzionato dall’art. 614 del nostro codice penale.
Da un lato, la condotta della badante appare astrattamente riconducibile alla previsione contenuta nel secondo comma del citato art. 614, il quale punisce chi si trattiene “nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi”, “contro la volontà espressa di chi ha diritto di escluderlo”.
Dall’altro lato è pacifico che il datore di lavoro, una volta risolto il contratto, abbia diritto di escludere il lavoratore domestico dal proprio domicilio, essendo venuto meno il titolo giuridico (appunto il contratto di lavoro) sulla cui base il predetto lavoratore era legittimato a dimorare in quel luogo.
Infine è noto che nel nostro ordinamento l’illecito contrattuale e l’illecito penale possono coesistere, non sussistendo tra gli stessi un rapporto di specialità; dunque, un soggetto può, con la medesima condotta, violare contestualmente una previsione contrattuale (nel caso di specie l’art. 40 del contratto collettivo nazionale) e consumare un reato (nel caso di specie, quello punito dall’art. 614 c.p.).
Una conferma, sia pure indiretta, della tesi sin qui sostenuta (secondo la quale in caso di mancato allontanamento del lavoratore domestico dall’immobile si configura il reato di cui all’art. 614 c.p.) può essere ricavata anche dalla lettura di una recente sentenza di merito (Tribunale collegiale Lecce, sentenza 31 marzo 2022, n. 820).
Il caso riguardava una badante, regolarmente assunta, trasferitasi (anche insieme al marito ed alla figlia) presso la dimora del datore di lavoro per assistere la madre e la sorella dello stesso datore, entrambe affette da gravi disabilità, che con lui coabitavano. Nel corso del tempo sia la badante, sia il di lei marito avevano posto in essere (in tesi accusatoria) una serie di condotte maltrattanti nei confronti delle due donne disabili.
La sera del 7 luglio 2021, esasperato a fronte di un episodio di violenza, il datore aveva richiesto l’intervento delle forze dell’ordine; contestualmente aveva intimato alla badante ed ai suoi familiari di lasciare immediatamente la casa, senza però ottenere alcun risultato.
Due giorni più tardi lo stesso datore aveva tentato di consegnare alla badante una lettera di licenziamento per giusta causa, che la donna si era però rifiutata di firmare.
La situazione era rimasta immutata nei giorni seguenti, nonostante il reiterato invito a lasciare la casa. Tant’è che le forze dell’ordine avevano accertato la presenza della donna e dei suoi congiunti nel corso di un sopralluogo effettuato l’11 luglio 2021.
Di qui l’imputazione elevata contro la badante ed il marito per violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.) “per essersi trattenuti, in concorso tra loro, all’interno dell’abitazione di M.D., M.A.P. e M.I., contro la loro volontà, rifiutandosi di lasciare la predetta abitazione come richiesto dalle persone offese […] e rifiutando altresì la S. (ossia la badante, N.d.R.) di sottoscrivere la lettera di licenziamento per giusta causa dicendo che non sarebbe mai andata via da quell’abitazione”.
Ebbene, dopo aver escluso la configurabilità della violenza privata perché assorbita nella violazione di domicilio, il Collegio ha assolto l’imputata da quest’ultimo reato sulla base di una duplice ragione: da un lato - si è rilevato - non era possibile pretendere un immediato abbandono dell’abitazione la sera della violenza (“avendo con loro una figlia minore e non risultando che avessero altro posto dove andare”); dall’altro lato dal momento del licenziamento per giusta causa (che, come noto, non richiede un preavviso) “erano passati solo tre giorni, termine non congruo per trovare una
sistemazione per una famiglia di tre persone”.
L’insegnamento che traspare dalla sentenza è chiaro: astrattamente il comportamento del lavoratore domestico che, a fronte del venir meno del rapporto contrattuale e di una richiesta espressa, si rifiuta di lasciare l’abitazione in cui coabita con il datore di lavoro integra il reato di violazione di domicilio; tuttavia, in caso di licenziamento per giusta causa, affinché il reato possa ritenersi in concreto consumato è necessario che sia decorso un termine congruo.
Problema che invece non sembra porsi nel diverso caso di recesso del contratto, posto che il termine (di preavviso e, dunque, di rilascio) è in tale ipotesi direttamente individuato dal contratto collettivo nazionale.
Si prenda ora in esame il secondo caso, ossia quello del lavoratore domestico al quale sia stato messo a disposizione un alloggio indipendente.
L’ipotesi è espressamente disciplinata dall’art. 40, co. 3, del contratto collettivo nazionale, secondo il quale in caso di risoluzione alla scadenza del preavviso l’alloggio deve essere rilasciato, libero da persone e da cose non di proprietà del datore di lavoro.
Ebbene, ove ciò non avvenga, risulta integrato il reato di violazione di domicilio?
La risposta sembra dover essere negativa. L’art. 614 c.p. tutela l’abitazione, gli altri luoghi di privata dimora e le loro appartenenze purché vi sia un’attualità dell’uso, in virtù della quale può appunto
parlarsi di domicilio. In altre parole, affinché trovi applicazione la norma penale è necessario che i luoghi siano effettivamente adibiti alla funzione cui il domicilio deve assolvere; ossia che vi
sia non già la semplice destinazione, ma la effettiva fruizione di questi come luoghi in cui si svolge o deve svolgersi la vita privata della persona.
Ciò, peraltro, non implica che il proprietario debba essere sempre fisicamente presente: il requisito dell’attualità sussiste anche nel caso di assenza, più o meno prolungata, da parte dell’avente diritto o di un uso solo saltuario (ed è per tale ultima ragione che tra i luoghi tutelati rientra anche la casa di villeggiatura utilizzata solo in determinate stagioni).
Ebbene, pare evidente che nel caso di un alloggio indipendente messo a disposizione del lavoratore domestico non possa parlarsi né di abitazione, né di altro luogo attualmente adibito a privata dimora.
Il che porta ad escludere che, in caso di mancato rilascio, si concreti, oltre alla violazione del contratto, anche il reato di cui all’art. 614 c.p."